Non erano ancora passati due o tre giorni che mi avvicinai ad Omero, il poeta – nessuno dei due aveva impegni – e gli chiesi, fra le altre cose, da dove venisse, spiegandogli che questo è il punto più dibattuto fra noi sulla Terra fino al giorno d’oggi. E quello mi riferì di non ignorare, egli stesso, che c’è chi lo considera cittadino di Chio, chi di Smirne, e molti di Colofone; ma sosteneva di essere babilonese, e d’essere stato chiamato tra i suoi concittadini non Omero ma Tigrane; avrebbe poi cambiato nome  una volta divenuto ostaggio fra Greci.

Gli rivolsi poi una domanda anche sui versi che vengono considerati spurii: li aveva scritti lui? E quello: “tutti miei”. Al che mi venne da rimproverare a Zenodoto e Aristarco, i grammatici, una gran bella mancanza di spirito. Una volta che mi ebbe risposto in maniera soddisfacente su questi punti, gli chiesi perché aveva dato l’avvio al poema con l’ira (funesta); egli disse che gli era venuto in mente così, senza essercisi applicato. Io però volevo anche sapere se aveva scritto l’Odissea prima dell’Iliade, come i più pretendono; e disse di no. Quanto poi al fatto che non era neppure cieco – altra cosa che si dice su di lui – lo seppi da subito: ci vedeva, sicché non dovetti neppure domandarlo.

Ripetei l’esperienza anche in seguito in più occasioni, ogni qualvolta lo vedessi libero da impegni: avvicinandomi gli rivolgevo una domanda, ed egli mi dava la risposta di buon grado, specialmente dopo la conclusione del suo processo, una volta che ebbe vinto. C’era stata contro di lui, infatti, un’accusa per prevaricazione, depositata da Tersite per via dell’ironia che si era concesso al suo indirizzo nella sua opera, e Omero aveva vinto grazie all’assistenza legale di Odisseo.

Nello stesso periodo arrivò anche Pitagora di Samo, che aveva mutato forma già sette volte, aveva vissuto altrettante vite e aveva completato i cicli vitali prescritti all’anima; aveva tutta la metà destra del corpo fatta d’oro.  Si decise che poteva entrare a far parte della loro comunità, ma c’era ancora qualche dubbio se lo si dovesse chiamare Pitagora o, piuttosto, Euforbo. Arrivò anche Empedocle, cotto e tutto bruciacchiato nel corpo; ma per molto che li supplicasse non fu ammesso.